La storia di un nobile belga, di una misteriosa “madame” e di un villaggio mai realizzato
Dardago, primi Anni Sessanta del secolo scorso.
E’ il tardo pomeriggio di fine settembre. Quando gli ultimi raggi di sole che arrivano di sghimbescio da occidente tentano di allungarsi sulle pietraie della Val Grande, un’auto chiara dalla lunga eleganza supera la piazza di Dardago e sale verso la Val di Croda incuneandosi tra le case della borgata. I frazionisti ammirano quel passaggio seguendolo fin dove è possìbile, poi le loro fronti si aggrottano con la speranza che quell’apparizione non si trasformi in un mistero senza soluzione. Quegli uomini, semplici d’animo e d’intenti, dimostrano una curiosità comprensibile, poiché mai prima di quel momento un tale veicolo era stato visto in paese. Affrontando la carrareccia l’auto ha un sussulto, la velocità diminuisce e la guida si fa più attenta. L’auto procede lentamente cercando d’assecondare le asperità del terreno. Il motore è spento davanti a quella che un tempo era la casera S. Tomè, nel luogo un tempo chiamato il “Ciamador della Val di Cròda” dove partivano carbonai, caseranti e montanari che nelle slitte assieme a legna, carbone e fieno caricavano anche le loro pesanti esistenze. Il conducente scende e con gesti essenziali apre la portiera posteriore dalla quale spunta un uomo che veste con eleganza. La sua signorile figura sembra stridere con la crudezza di una valle prealpina che Madre Natura ha voluto comprimere tra colate di ghiaie e penda accidentati. Intanto, forse per gratificare l’ospite, le Crode di S. Tomè tentano d’accendersi dei colori caldi e armoniosi dell’enrosadira dolomitica ma è solo una speranza, poiché non basta la presenza di una persona così distinta per nobilitare le pietre che la storia ha voluto umili e sconosciute. Poco dopo anche una giovane donna abbandona il sedile e trasferisce tutto il suo charme nel terreno accidentato. Alta, bionda e con un foulard di seta colorata che le nasconde collo e spalle, ondeggia in precario equilibrio. I due uomini si precipitano a sostenerla. Il terzetto si ricompone ed è in quell’istante che l’autista allungando il braccio verso la montagna indica la boscaglia e le cime soffermandosi su una traccia che scompare nel bosco e riappare in un pendio dove arbusti e massi sembrano opporsi alla legge di gravità. Ormai il sole è scomparso e la valle scivola nel buio. Non c’è più tempo ma forse neppure la voglia per osservare. La brezza che scende dalla Val Grande accarezza i visitatori. L' aria si carica di una freschezza elettrizzante che obbliga l’uomo ad alzare il bavero della giacca mentre la giovane donna s’immerge ancora di più nel foulard. Il conducente è già in auto e avvia il motore. I fanali fendono la carrozzabile illuminando ora una pietra ora il bosco. Poco dopo il fascio di luce rimbalza tra le case di. Dardago riguadagnando la pianura. Mi piace immaginare che le vicende che hanno visto nascere e morire nel breve volgere di un paio d’anni il progetto de La Venezia delle Nevi, abbiano avuto inizio con l’arrivo in Val di Croda del conte belga Daniel D’Ursel che aveva lasciato il suo castello di Hingene, nei pressi di Anversa, per realizzare un villaggio turistico tra Casera Campo e le pendici del Saùc. Il nuovo insediamento avrebbe dovuto cóniugare lo sport dello sci con la villeggiatura estiva nei lidi adriatici; non a caso per quell’ardita iniziativa era stato ideato un logo che presentava il ferro di prua di una gondola veneziana assieme a un cristallo di neve stilizzato. Per Budoia La Venezia delle Nevi era la risposta agli avianesi che proprio in quegli anni stavano creando la loro stazione turistica nel campo carsico del Cavallo. La rotabile che collegava Aviano con il Piancavallo era una realtà e lo stesso non lo si poteva dire per Budoia che per realizzare il suo sogno avrebbe dovuto passare per la Val di Croda e arrivare molto più in alto. Il progetto era ambizioso ma altrettanto oneroso se consideriamo l’asprezza dei luoghi che fino a quel momento erano conosciuti solo dai montanari locali. In ogni caso la Venezia delle Nevi aveva trovato uno stuolo d’estimatori nel Mandamento di Pordenone tanto che in molti avevano affidato i risparmi alla società costituita dal conte belga. L’architetto francese Raymond Martin aveva previsto ben 285 lotti nei quali edificare altrettanti villini seguendo lo stile tipico, cosi almeno si era detto allora, della montagna friulana. Gli acquirenti non mancavano; pordenonesi a parte, la caparra era stata versata da francesi, tedeschi, austriaci, americani e naturalmente da alcuni connazionali del D’Ursel. La Venezia delle Nevi aveva bisogno di acqua potabile ed energia elettrica ma la necessità primaria era una strada e per tracciarla la Ditta Sartor e Mayer aveva profuso impegno e professionalità seguendo le disposizioni di Edgar Ovart, il direttore generale della Società. Fatto sta che per i diciasette chilometri e rotti se ne erano andati venti miliardi di lire. Quella cifra era stata diluita in un‘infinità di tornanti ai quali era stato affidato il compito di rendere accettabile la pendenza, ma quel denaro era soprattutto servito per rintuzzare gli attacchi del meteo che nelle stagioni autunnali 1965 e 1966 aveva rovesciato tonnellate d’acqua su pendìi che i “vecchi” di Dardago consideravano instabili. Ad ogni modo dopo aver superato, o forse è meglio scrivere mascherato alcune difficoltà, il 18 settembre 1967 un gruppo d’autorità, tra le quali c’era anche l’industriale Lino Zanussi, avevano assistito all’inaugurazione dell’arteria montana che partiva dallo Chalet Belvedere, l’attività di ristorazione aperta da Alfredo Janna. A quel punto sembrava che La Venezia delle Nevi potesse navigare in acque tranquille e invece il naufragio era prossimo. La costruzione della strada aveva assorbito gran parte del capitale societario e per di più in patria il D’Ursel aveva patito un rovescio finanziario che tra gli investitori aveva minato la sua affidabilità. I finanziatori si era progressivamente dileguati e di conseguenza anche la gondola della Venezia delle Nevi era stata risucchiata in un mare d’incertezze. Oggi a testimoniare quell’improbabile iniziativa rimane una rotabile a fondo naturale che con numerosi tornanti guadagna quota arrivando a quello che fino a pochi anni or sono era il ristoro “Baracca del Saùc” per proseguire verso Campo e Friz. In alcuni tratti la strada, peraltro interdetta al traffico motorizzato, è ridotta a poco più di una mulattiera frequentata da podisti, escursionisti e appassionati di mountain-bike che trovano in quel sogno mancato un buon terreno d’allenamento. Alla quota di 1000 metri s.l.m. circa, ci si può ancora dissetare con lo zampillo che sgorga dalla Fontana Tarabin (denominazione mutuata dal nome della famiglia di Dardago Zambon Tarabin) conosciuta anche come Fonte del Grillo. Il versante opposto invece è nobilitato dalle pareti delle Crode di S. Tomè e dalla forra del torrente Cunath o Cunaz, un gioiello acqueo che salta e rumoreggia a due passi dalla pianura. Più in sù, verso oriente, le antenne della Castaldia danno la certezza non di non essere tanto lontani da quel Piano del Cavallo che nel 1967 aveva vinto l’impari sfida con la Venezia delle Nevi senza dannarsi l’anima. Un passaggio dall’alpeggio Saùc è doveroso; qui sostavano gli sciatori e gli escursionisti che tra il 1925 e il 1943 salivano al Rifugio Policreti e così con l’animo attento al passato possiamo camminare con sicurezza nel presente.
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