Quel 4 novembre io l’Artugna andai a vederla la mattina e scesi con mio cugino Gigi alla fine del sentiero sotto casa sua: la montana era un larghissimo fiume di acqua fangosa che sembrava dovesse portarsi via tutte le rive, i magreith e l’orto di Sergio Pinal. Dall’altra parte dell’Artugna si vedevano le cime degli alberi spuntare dall’acqua, agitati dal vento. A noi sembrò nulla più che una “montana” eccezionale: televisioni a Dardago non ce n’erano molte, telefoni meno, e le notizie della radio erano frammentarie ed incomplete. Si sapeva solo che c’era maltempo dappertutto e acqua alta a Venezia. Per noi “turisti” le vacanze dei Morti erano finite e, come al solito, alla fine della breve vacanza, tutti in piazza per prendere la corriera delle quattro e trenta (autista Gianni “della corriera” e bigliettaio Piero Sartorel Zambon) e poi il treno a Sacile. Allora eravamo in tanti a fare periodicamente questo viaggio.
Ignari della gravità della situazione, ci ritrovammo tutti, credo venti, venticinque persone, nel piazzale antistante la stazione ferroviaria di Venezia, alle sette di sera, deserto ed ingombro di rifiuti e materiali vari, in parte coperto dall’acqua, il Canal Grande solcato da qualche rara imbarcazione e nessuno vaporetto, la città solo parzialmente illuminata. Cominciammo a capire che qualcosa di grave era successo, ma non sapevamo cosa e non sapevamo neppure come fare per tornare a casa: la maggior parte del gruppo era composta da donne e bambini e tutti avevano valigie.
Per nostra fortuna qualcuno era venuto in nostrosoccorso: da una barca, un grosso toppo a motore, qualcuno ci chiamava. Erano parenti di una del nostro gruppo che, conoscendo gli orari del treno, erano venuti con la barca dell’impresa edile a raccoglierci (credo fossero di Carnitha). All’inizio per me fu un specie di avventura, avevo 11 anni, perché mi misero sulla prua della barca a fare luce con il faro, illuminando una spettacolo da tregenda: nei canali galleggiava di tutto, larghe chiazze di gasolio macchiavano le pietre d’istria, pantegane nuotavano rapide tra pezzi di legno, masserizie, spazzatura. Forse lo fecero per non farmi avere paura, fatto stà che io mi divertii e mi sentii importante per tutto quel viaggio. Tutti i dardaghesi furono accompagnati a casa, alcune donne portate a spalla quando l’acqua alta impediva di raggiungere le porte delle abitazioni. Io venni “sbarcato” in Campo alla Fava, dietro al Gazzettino, in mezzo a mucchi di carta rovinata dall’acqua e mandato avanti da mia mamma ad avvisare papà, probabilmente preoccupato per il nostro ritardo, che eravamo arrivati (io avevo gli stivali!). Camminando per le calli buie cominciai a capire la gravità di quello che era successo: negozi devastati, mobili in mezzo al campiello, la casa del mio amico Toni invasa da trenta centimetri di acqua*, la Maria del panificio che scopavafuori dal magazzino una fanghiglia grigiastra che solo dopo capii essere farina. Un disastro! Non ricordo se la porta dicasa mia fosse aperta a se qualcuno mi aprì, data che la luce non funzionava e non potevo suonare il campanello.
Dopo aver salito le scale al buio, dovetti bussare a lungo alla porta perché mio papà venisse ad aprirmi: era stravolto, con una candela in mano, e mi chiese: - Cosa fate voi qui, siete matti? - Non pensava infatti che noi non sapessimo nulla dell’alluvione e immaginava che non saremmo mai partiti da Dardago. Lui era andato a dormire nel pomeriggio, distrutto da una giornata passata a tentare di salvare qualcosa nel ristorante in cui lavorava in Piazza San Marco, la Birreria ai Leoncini.
Dopo che la marea aveva invaso tutto, immersi fino alla vita in quell’acqua fredda e sporca, avevano dovuto rinunciare, abbandonare tutto e andare a casa ad asciugarsi, sperando di non ammalarsi.
Quella sera andammo a dormire tristi e preoccupati, non sapendo quale spettacolo la città ci avrebbe offerto al mattino, consci del disastro che si era abbattuto su Venezia ed i suoi abitanti.