Per l’attento visitatore del nostro sito che abbia aperto questa pagina, verrà spontaneo, se non è dardaghese o di qualche paese dei dintorni, chiedersi: ma cosa significa questa parola? Orbene caro visitatore noi cercheremo di spiegartela. Devi sapere che fino a pochi anni fa nemmeno le giovani generazioni di Dardago sapevano cos’era un “mado” perché, purtroppo, questa tradizione cessò di essere tramandata poco dopo il secondo conflitto mondiale. Una data certa di inizio di questa tradizione non esiste, abbiamo contattato alcune persone anziane le quali ci hanno riferito che i loro genitori e prima di loro i loro nonni e prima ancora i loro avi, avevano l’usanza di fare i “madi”. Con ogni probabilità questa tradizione ha avuto origine a Dardago per poi passare a Budoia e a S.Lucia. Il giorno antecedente l’Epifania era usanza e consuetudine che la sera, in chiesa, avesse luogo la cerimonia della benedizione dei ”pons” (mele) ed anche del “mado”, i paesani partecipavano numerosi portando mele, agrumi, sale ed anche una bottiglia vuota, per poi riempirla di acqua benedetta, difatti per la chiesa tale cerimonia è la ”Bendictio aquæ in vigilia vel festo Epiphaniæ Domini”. Le mele, dopo averne mangiata una al rientro a casa, venivano conservate sino al 3 febbraio, giorno di San Biagio quando a digiuno, dopo aver recitato un Pater, Ave, Gloria, si mangiavano per preservare la gola da ogni malanno. Il sale lo si conservava per mescolarlo nel cibo degli animali che eventualmente si fossero ammalati durante l’anno. Una parte dell’acqua santa veniva riposta nelle piccole acquasantiere delle camere da letto, la rimanente si conservava per altri usi quali la benedizione della casa, la benedizione della stalla o, usando un ramoscello di ulivo benedetto e tracciando il segno della croce, per allontanare i temporali. Dopo questa prima benedizione il Pievano procedeva alla benedizione dei “madi”. Il “mado” era, solitamente, una piccola pianta di ginepro, di cui la nostra bassa e media montagna abbonda, più raramente si usava il pino o l’alloro, era alto da uno a due metri e veniva sistemato in un cesto zavorrato sul fondo da pietre ricoperte di “lisp”(muschio). Il “mado” era preparato dalle singole famiglie, normalmente erano le ragazze di ogni famiglia ad avere il gradito compito di allestire il “mado” appendendo ai suoi rami mele, arance, mandarini, carrube, arachidi, noci, castagne secche e immagini sacre. Dalla punta, dove veniva legata una colorata ed appariscente ciocca, venivano fatti scendere fili di lana colorata e nastri ugualmente colorati che molto spesso erano gli stessi di cui le spose si erano ornate durante il loro matrimonio, legandoli a svolazzo, nella parte posteriore del grembiule che allora faceva parte dell’abito nuziale. Talvolta per dare un tono più colorato al “mado” vi si appendevano i frangiati fazzoletti dalle tinte vivaci che le giovani donne usavano mettere sulle spalle nei giorni di festa. Una volta addobbati, i “madi” venivano portati in chiesa e collocati lungo la corsia centrale e il Pievano passava a benedirli. A cerimonia finita veniva tutto riportato a casa. Molte famiglie usavano spogliare subito il “mado” dai suoi addobbi e poi buttarlo nel fuoco del “panevin” (falò) che un tempo veniva preparato in ogni contrada ed acceso qualche tempo dopo la cerimonia della “benedithiòn dei pòns”. Negli anni post bellici, a Dardago, i “madi” non erano più di una dozzina e negli anni seguenti, purtroppo, questa tradizione scomparì definitivamente. Dopo più di mezzo secolo l’oblio di questa tradizione dardaghese è finito ma, a differenza del passato, i “madi” ora vengono preparati da alcuni incaricati e rappresentano le vie del paese. Una volta addobbati come nei tempi passati, vengono portati in chiesa e posizionati lungo la navata centrale non alla vigilia dell’Epifania ma la notte di Natale, e lì rimangono per tutte le feste natalizie. Non sono più di ginepro ma di pino, muniti di radice per poi essere riutilizzati il Natale successivo. |