Era una serata particolarmente calda per l’inizio di maggio, a Venezia, ed eravamo seduti a tavola per la cena. – Massimo, non muovere la tavola! - Mama, so fermo! – E allora cos’è?
In quel momento le appliques si staccarono dal muro, la tavola si mise a spostarsi e dalle finestre aperte ci giunse un rumore come di nacchere: affacciatici alle finestre, mentre anche la casa dondolava, scoprimmo che il rumore veniva dalle tegole agitate dal terremoto (abitavamo al terzo piano). Solo allora avvertimmo la paura, mia mamma si ricordava bene il terremoto precedente, nel 36, vissuto a Dardago, e sentimmo le grida dei vicini e di quelli che scappavano giù in campo Santa Marina.
Corremmo giù anche noi, trovando i vicini di casa terrorizzati e increduli. Ricordo uno che era sceso con in mano la gabbia del canarino, un altro in mutande con un bicchiere in mano, le donne più spaventate che mai. Dopo qualche minuto, resici conto che non c’erano danni e nemmeno feriti cominciammo a chiederci cosa fosse successo, dove il terremoto avesse colpito, sicuramente vicino: dalle case arrivava ancora la voce della televisione.
Risalii a cercare notizie dal telegiornale, mi sembrava che nessun’altro avesse voglia di farlo, e scoprii che “l’orcolat” aveva colpito al cuore la nostra regione, la piccola patria del Friuli.
Rientrammo a casa tardi quella sera dopo lunghe ore di angoscia per i nostri cari: giù in campo tra quelli che erano scappati da casa c’erano molti friulani e loro amici e parenti. Nessuno aveva notizie precise ed era difficile ottenerle. Sembra strano, ma solo trent’anni fa non c’era il telefono in tutte le case, a Dardago, ed i mezzi di comunicazione erano limitati a due canali televisivi e poco altro. La mattina dopo, con le notizie apprese dai giornali che avevano solo l’effetto di aumentare la preoccupazione per amici e conoscenti partii col treno per Dardago.
Sapevo che il terremoto aveva solo sfiorato le nostre zone, ma dovevo vedere di persona per capire. Arrivato a Dardago vidi con sollievo che non c’erano danni importanti e che nessuna persona era ferita, ma compresi subito la grandezza della tragedia: Gemona, Venzone, Tarcento, Buia, Osoppo, Artegna, e altri paesi spesso solo sentiti nominare dai più grandi che ci avevano fatto la naia, erano stati praticamente distrutti. Non ebbi che il tempo di posare la valigia, cambiarmi e unirmi agli amici che avevano già iniziato la raccolta di generi di prima necessità.
Già: in Friuli la terra non si era ancora fermata e la macchina del soccorso, spontanea, incerta, preoccupata, si era messa in moto (la protezione civile non era ancora nata). Ricordo tutti i giovani miei coetanei in giro per il paese a raccogliere vestiti e materassi, pacchi di biancheria e coperte nelle case, e le vedove più o meno anziane che donavano l’intero guardaroba del marito: ne riempimmo varie volte il rimorchio del trattore, raccogliendo poi il tutto in canonica.
Non capivo, all’inizio, ma quando andammo ad Aviano scoprii che già esisteva una organizzazione in grado di gestire le prime esigenze dei comuni colpiti, quello che serviva e dove. Una marea di persone si muoveva, caricando e scaricando camion, impaccando e smistando il materiale. I sindaci avevano creato una rete di contatti, probabilmente usando le reti di comunicazione militari e i radioamatori. I militari: nel Friuli pieno di caserme ben 29 alpini persero la vita, ma la loro presenza nel territorio fornì la rete logistica sulla quale muoversi. Alcuni di noi del gruppo che si era formato non vollero, allora, nei primi giorni, quando solo si intuiva la grandezza della tragedia, recarsi a Gemona o a Venzone per il dolore e la paura di vedere i paesi in cui avevano fatto la naja rasi al suolo, temendo forse di dover raccogliere le spoglie di qualche amico.
Ci andarono dopo a ricostruire i paesi, a portare solidarietà, a far vedere che i friulani sono come sono, caparbi, poco socievoli, in apparenza, ma così legati tra loro e con la loro terra che una sola cosa si respirava, si leggeva negli occhi della gente: com’era e dov’era, così rinascerà il Friuli.
Trent’anni dopo il Friuli è là dov’era, più bello e sicuro di prima: andate a Gemona, andate a Venzone e vedrete quello che sono stati capaci di fare per non perdere identità e memoria e le testimonianze della storia e dell’arte.
Anche noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di non perderle.